Il 2020, l’anno del Covid, è stato lo stesso dello stop delle produzioni. Set chiusi, film messi in stallo, attori, registi e maestranze a casa (come tutti) che aspettavano soltanto di rivedere le luci della ribalta, detta alla Chaplin. Uguale per il teatro: sale blindate e manifestazioni in piazza per mettere al centro i diritti dei lavoratori dello spettacolo, continuamente sotto attacco anche oggi che, a quasi quattro anni di distanza, si ritrovano – tra gli altri – con il problema delle produzioni (quasi) superato, ma con un’abbondanza di prodotti che non riescono spesso ad arrivare in sala. O meglio, magari ci arrivano anche, ma a che costo?
I casi felici esistono. A cercarsi il loro spazio sono soprattutto le opere indipendenti che, forti del loro entusiasmo, scovano i luoghi, i muri, i teli su cui proiettare. Può essere la sala più bella della più piccola cittadina di provincia, come il cinema d’essai più di nicchia della capitale. Può trattarsi del festival più ristretto e sperimentale che può riempire le piazze durante i periodi più disparati dell’anno o, all’occorrenza, scuole occupate e centri sociali.
La tecnica, la maggior parte della volte, è di adoperare una strategia dritta e mirata stile battaglia navale, che colpisce e affonda scegliendo un luogo e una data in cui concentrare la combo proiezione più incontro col pubblico. Anche le anteprime, in questo caso di film delle major o commerciali, funzionano come incentivo per gli spettatori a recarsi in sala. Meno le prevendite, che con operazioni come The Marvels, hanno avuto assai poco a cui auspicare.
Gli artisti, comunque, hanno capito un principio fondamentale: ci devono mettere la faccia. E non soltanto sul grande schermo (o dietro, col tocco del regista), ma presentando le loro opere e rispondendo alle domande e alle curiosità delle persone.
Distributori indipendenti o, addirittura, assenti
Tornando ai film piccolini, quelli che è già un’impresa aver realizzato e che perciò si sputa il sangue pur di farli uscire, è ovvio che i loro autori e interpreti hanno più (e meno) da perdere. Allora si mettono in macchina, si fanno da auto-distribuzione, vengono invitati e a loro volta si fanno invitare dalle sale, convincendo anche gli esercenti più reticenti e riuscendo, a volte, a riempire le sale. Lo dimostra Non credo in niente, che proiezione dopo proiezione reitera il sold out in ogni cinema in cui capita.
Continua Simone Bozzelli con l’esordio Patagonia, che dal concorso di Locarno si mette in prima linea per rendere un po’ più punk il panorama italiano. Lo stesso fa il suo collega Alain Perroni di Una sterminata domenica, due dei titoli che col Cinema Troisi hanno dimostrato che il fenomeno di una distribuzione di opere prime, ragionata in termini simil-indipendenti, può fare la fortuna di registi e esercenti. Per non mettere in secondo piano quella di un pubblico che per troppo tempo l’industria ha creduto cinematograficamente analfabetizzato e, per questo, inabile a nutrirsi se non di commedie e di blockbuster.
Ora, chiariamolo subito, la bravura è bravura, ma anche la fortuna fa la sua parte, e sapere quale sarà l’andamento di un film non è un dato certo, soprattutto non potendo contare sul potere del passaparola o potendone stimare dall’inizio l’eventuale portata. C’è da aggiungere che il nome e l’affezione giocano un ruolo importante, un asso nella manica che non viene magari giocato alla prima mano, ma che si butta sul tavolo quando la puntata è diventata alta.
Il caso de La chimera e il passaparola come distribuzione
È intuitivo che, quindi, al richiamo di Alice Rohrwacher de La chimera, i suoi fan cinefili e bucolici rispondano. È ovvio che all’appello del suo protagonista Josh O’Connor, al suo arrivo in terra italica per una presentazione col pubblico, porti con sé una scia di appassionati (suoi, di The Crown, e non solo). “La chimera è in poche sale”, scrive il cast sui social, a cui fa eco anche Rohrwacher. “Chiamate i vostri cinema di quartiere, di paese, fate programmare La chimera”. E le persone chiamano e i cinema lo fanno. La programmano.
Insomma, qual è la tecnica? Qual è il metodo, la coerenza? È mettere di nuovo il pubblico al centro, è ascoltare, è cogliere la sensibilità. È anche il passaparola di cui parlavamo, perché senza una curiosità insita lo spettatore casuale di turno non ci sarebbe mai capitato a vedere La chimera. È il principio del tutti ne parlano, e ne parlano bene, allora vogliono saperne la ragione. Le sale così si riempiono, magari non fanno il pienone, ma se tu ci vai, allora ci devo andare anche io. E guarda un po’ se alla fine mi becco anche un bel film.
Ma che si fa se un autore o un’autrice si affidano soltanto alla loro distribuzione? Cosa accade se il loro nome non è altisonante, se il loro film “non è un capolavoro”, come ammettono loro stessi, ma “dentro c’è tantissimo lavoro da parte di molti professionisti, c’è tanta cura, passione, c’è dentro il nostro sudore, la nostra fatica, il nostro talento, l’abnegazione, il sacrifico, l’intelligenza, la tecnica, l’attesa dei tramonti e delle albe, il gelo, l’umidità, la luce e l’ombra che abbiamo pazientemente aspettato, c’è dentro tutto il nostro sapere perché nessuno si è risparmiato, mai!”.
Le parole, scritte sulla sua pagina Facebook, sono di Emma Dante, al terzo film con Misericordia, in anteprima alla Festa del Cinema 2023 e uscito nelle sale il 16 novembre. “Non ci dormo, non mi rassegno, dopo il primo weekend le copie del mio film, Misericordia, sono state dimezzate”.
Dalla serialità ai film-evento
I numeri sono stati più bassi del previsto (già contenuti, ma ancor sotto le aspettative), gli orari sono diventati “improbabili” e ci sono stati esercenti, come al Beltrade di Milano, che hanno affermato che, al loro pubblico, il film non ha entusiasmato.
“Possibile che l’assenza di nomi altisonanti o produzioni potenti debba generare un oblio così immediato e ingiusto?”, si chiede l’artista poliedrica. E pone un quesito più alto dei compensi e degli incassi: “Il film non può resistere in sala perché non ha entusiasmato?”. Qual è, dunque, il ciclo vitale di un’opera? Chi lo decide e cosa lo determina? Ma, soprattutto, la distribuzione può fare qualcosa per non staccargli prematuramente la spina?
In un’era di riscoperta dei classici che vanno bene al botteghino, di episodi di serie tv che presentano i loro primi episodi in anteprima – l’ultima, in ordine di tempo, Doc – Nelle tue mani – l’esperienza-evento è una realtà che ha soppiantato la visione classica del film. Che si è adattata al fatto che il cinema non è certo l’avanspettacolo, ma che arricchirlo di presenze, di incentivi e di chiacchiere contribuisce ad alimentare il dibattito e a non scomparire in quel temuto dimenticatoi.
Anche i famosi tre giorni di programmazione sono una soluzione. Tempo limitato, massima resa. Che non significa che la pellicola non possa scoppiare: Godzilla Minus One era in calendario dall’1 al 6 dicembre, ma con Nexo Digital – che di distribuzione selezionata e oculate è ormai esperta – può capitare di trovarlo ancora in giro in qualche sala.
Va bene la distribuzione, ma la pubblicità?
Ci si domanda quindi se le autrice e gli autori debbano subentrare per un ulteriore ruolo, farsi distributori di se stessi. Ma la questione potrebbe essere anche di saturazione di un mercato che cannibalizza un prodotto dopo l’altro. Si dice che Barbie e Oppenheimer abbiano fatto i milioni perché blockbuster da capogiro: nessuno si sofferma però sul fatto che la loro pubblicità è cominciata un anno prima dell’uscita, montando un fenomeno come il Barbenheimer, che entrerà negli annali.
È il marketing che non funziona in Italia, è l’informazione latente, la mancanza di originalità. È credere anche che la pubblicità, nel cinema autoriale, sia il male. Eppure La chimera di Alice Rohrwacher, che è tutto fuorché scontato per un pubblico generalista, ha dimostrato di non disprezzarla affatto e ha tramutato la sua sfortuna in un’occasione di riscatto. E ci è riuscita, balzando nella classifica del box office e raggiungendo – il giorno lunedì 11 dicembre – il quinto posto con 19 mila euro, per un totale di 474mila (dopo l’uscita il 23 novembre).
Spazi, partecipazione e domare il Leviatano dell’antropofagia cinematografica. Poche dritte, forse considerazioni al vento, ma un pertugio che sponsorizzi al cento per cento ogni opera, che non lasci niente di intentato e che, almeno, non ci stracci il cuore con dolorosi post social.
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