Pasquale Catalano, professione compositore (per il grande schermo): “Non può esistere un cinema senza la musica”

Autore di colonne sonore per film come Le conseguenze dell'amore di Paolo Sorrentino e Romanzo Criminale di Stefano Sollima, ha composto le musiche di Volare, l'esordio alla regia di Margherita Buy: "Ma oggi il mondo non riesce più a riflettersi nei film". L'intervista di THR Roma

“Non esiste e non è mai esistito un cinema senza la musica”. Pasquale Catalano rivendica con fermezza l’importanza della composizione musicale nella settima arte: la definisce una parte integrante del prodotto cinematografico finito, sia a livello a livello di diritti che di costruzione dell’opera. “Quando si pensa a C’era una volta il West, tutti ricordano l’inquadratura sul paese con la musica di Morricone, non qualche battuta pronunciata dai personaggi”.

Partendo come esempio i western di Sergio Leone, in questo senso Catalano di cinema ne ha fatto tanto. Quasi sessanta i titoli arricchiti dalle sue colonne sonore, da Sorrentino a Ozpetek, passando per Sollima e per Volare, l’esordio alla regia di Margherita Buy, attualmente al cinema con Fandango.

Per il suo ultimo lavoro, in uscita il 4 marzo con Cam Sugar, racconta di aver immaginato quattro situazioni sonore ed emotive, a partire dai sentimenti dei protagonisti di Volare, con un’attenzione particolare all’ironia, cardine del film, che anche in musica deve accompagnare i protagonisti “senza renderli grotteschi, che è il grande rischio della commedia all’italiana”.

Musica e cinema sono due mondi inestricabili. È difficile riuscire a farli comunicare?

Non è mai impossibile, perché il cinema è fatto di musica. Molti non lo sanno, ma per la legge gli autori di un film sono il regista, gli sceneggiatori, l’autore del soggetto e l’autore della colonna sonora. La musica in questo senso è paritaria. Un terzo di tutti i premi viene dato ai musicisti, coautori a tutti gli effetti.

Può esistere un cinema senza musica?

La musica e le immagini comunicano tra di loro sin da quando è nato il cinema. Non esiste e non è mai esistito un cinema senza la musica. Per un periodo non ha avuto dialogo, quando non aveva la pellicola sincronizzata, ma la musica con la lingua e l’immagine sono i tre elementi semantici che rendono le pellicole possibili.

Esiste per lei un processo unico di creazione e scrittura?

No, varia di situazione in situazione. La musica aiuta il montaggio, in qualche modo ne guida la ritmica. Succede di trovare nelle prime versioni del film della musica di prova appoggiata lì – chiamata temporary track – che magari in certi casi è tua, in certi casi no, ma comunque funge da condizionamento.

Margherita Buy nel suo debutto alla regia Volare

Margherita Buy nel suo debutto alla regia Volare

Nel caso di Volare cosa è successo?

Sono arrivato alla fine del montaggio, con pochissimo tempo rispetto a quello ideale di costruzione di una colonna sonora. Tutto si è svolto nel giro di un mese. Ho visto il film montato alla fine, e sono arrivato alla composizione con le immagini: ho visto tutto il film e poi ho iniziato a proporre.

È una composizione empirica evocata dalle sensazioni, dunque.

Quando scrivi qualcosa prima che il film venga girato arriva sempre il momento della verità, che è quello in cui si vedono le immagini. Di C’era una volta il West tutti ricordano l’inquadratura con la musica di Morricone sul paese, non qualche battuta pronunciata dai personaggi.

C’è una potenza emozionale diretta che arriva della musica, ed è su quello che si scrive. La musica cambia anche a seconda della fotografia. In un film girato in sedici con una fotografia sgranata sarebbe strano inserire una super orchestra pulita che tira delle note. La musica è l’elemento più diretto, che passa alla cultura, che arriva direttamente, che prescinde ciò che lo spettatore sa o non sa.

Che emozioni ha tentato di evocare con la musica di Volare?

Nel film ci sono quattro situazioni emotive che ho messo in musica. La prima è quella ironica dell’inizio, ripresa da un pezzo molto leggero, che accarezza i protagonisti senza renderli grotteschi, che è il grande rischio della commedia all’italiana.

Poi c’è la malinconia, che accompagna Margherita al mercato. C’è il tema che riguarda il padre, che è forse il più toccante, anche a livello personale, perché ho perso il mio papà durante la lavorazione del film, il che mi ha avvicinato a Margherita. E poi c’è il gioco su Elena Sofia Ricci, un preludio bachiano per terzine e semicrome, una marimba, note che si inseguono.

In questo senso penso di aver scritto musica, non sonorizzazioni vaghe. È una composizione anti-televisiva, antifiction. C’è questo nuovo modo di comporre ora, che non è né meglio né peggio, semplicemente è. E io spero che la mia composizione sia diversa, cinematografica.

In base a cosa sceglie quali lavori accettare? Su quali sceneggiature scrivere?

Io penso che il lavoro, come diceva Morricone, è fatto di sudorazione più che di creazione. Ho una concezione della mia professione molto forte: faccio tutto quel che mi viene proposto, a meno che non sia veramente qualcosa di ignobile, e ne esistono di casi simili. Una delle prerogative, però, è che cerco di non rinunciare mai a un’opera prima

Come quella di Buy con Volare, ad esempio.

Esatto, è qualcosa che mi fa sempre bene fare. Anche l’anno scorso ho preso parte a Mimì il principe delle tenebre, esordio alla regia di Brando De Sica, un talento assoluto. È stata una delle cose più belle che ho fatto negli ultimi dieci anni. Un film bellissimo, dove l’apporto di tutti gli elementi è fondamentale, non gli puoi sfilare niente.

Fin quando riuscirò a fare delle opere prime, senza dire al regista “fatti consigliare perché io ne so più di te” potrò continuarle a fare. Quando insegni a compositori già fatti, ma che hanno la metà dei tuoi anni, scopri cose, scopri i modi, è uno scambio bidirezionale.

Lei ha lavorato tanto anche con la composizione teatrale. C’è una differenza di percezioni rispetto al cinema?

La convenzione del cinema non è la stessa del teatro.  Al cinema puoi usarla come forza evocativa, come qualcosa di esterno. A teatro le persone sono prevalenti sul tuo modo di scrivere la musica, di fare qualcosa di esterno. Prima Piscator e poi Brecht dicevano che l’opera lirica avrebbe un senso se gli spettatori la commentassero cantando nel foyer.

Cosa sta a significare nella società contemporanea?

Le persone dopo il covid sono tornate a teatro in maniera massiccia, tuttora i numeri stanno aumentando. Al cinema invece non riescono a tornare, è come se ci fosse stata una specie di presa di consapevolezza.

Oggi il mondo non riesce a riflettersi nel cinema, se non per due o tre registi come Yorgos Lanthimos o Luc Besson, gli unici in grado di rendere il presente sullo schermo. Piuttosto si riflette nella danza, che riesce a metaforizzare la contemporaneità in maniera potentissima.

Tornando alla composizione, tanti musicisti si sono dati alle colonne sonore sulla scia del più grande e popolare, Sergio Leone. Anche per lei c’è stato un processo di iniziazione di questo tipo?

Per me è nato tutto dai miei due amori di sempre. Quello per il cinema è iniziato a 14 anni, quando sono andato a vedere 2001 Odissea nello spazio. Non ho capito niente, sono tornato a vederlo due o tre volte. La musica l’ho sempre fatta, ma sapevo che volevo fare cinema, aspettavo solo l’occasione. Napoli da questo punto di vista è pazzesca. Lì ho conosciuto Pappi Corsicato, abbiamo iniziato con lui a lavorare su Libera e poi Buchi Neri. Poi sono venuto a Roma, abbiamo fatto prima L’Uomo in più e poi Le conseguenze dell’amore con Paolo Sorrentino. Da lì io non sono mai stato disoccupato.

Pasquale Catalano è autore della colonna sonora de Le conseguenze dell'amore di Paolo Sorrentino

Pasquale Catalano è autore della colonna sonora de Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino

In questo senso ci sono state delle colonne sonore che l’hanno ispirata nel suo percorso?

La colonna sonora che mi ha fatto dire “mamma mia, si possono scrivere delle cose bellissime” è stata I misteri del giardino di Compton House. Per me Michael Nyman è stato l’ultimo a cambiare il modo di scrivere contemporaneo. Philip Glass, Steve Reich, John Adams erano dei maestri. Ma penso anche al Carlo Rustichelli di Signore e Signori, ad Ennio Morricone che ha modificato l’immaginario collettivo, non solo sul western, ma con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto anche su un altro tipo di musica, quella che riguarda il potere. Quelle colonne sonore hanno aperto la nostra generazione a un altro tipo di musica. Oggi è cambiato completamente tutto.

Perché?

Si pensi che qualche anno fa Hildur Guðnadóttir vinse l’Oscar per Joker, una colonna sonora che aveva ancora un’idea di musica già diversa, ma alta. Poi l’anno dopo è arrivato Dune, un film che a livello sonoro non ha nulla di tematico, è tutto sound design. E questo mi appartiene un po’ meno, perché la mia scuola ha una ricerca sonora diversa. Non amo molto la musica accondiscendente. È tutto diverso rispetto alle musiche normalmente affermative che si utilizzano di solito.

Con vari suoi colleghi fa anche parte dell’Associazione ACMF.

Siamo più di cento persone. Abbiamo una comunità bellissima, credo sia la prima in Europa che fa concerti di Sakamoto, di Morricone, Rustichelli, di tantissimi musicisti. Tra di noi ci confrontiamo, faremo quattro giorni di panel tra di noi per discutere un po’ su come vanno le cose. Non è un fatto professionale, diventa anche un fatto stilistico, di confronto. Questa cosa ha dato un respiro molto forte anche alla consapevolezza dei musicisti in Italia, e mi fa veramente piacere. Si chiama Associazione Compositori e Musica per Film, come diceva Ennio Morricone, non da film. Lui è stato il tutor e presidente. Dopo di lui abbiamo solo vicepresidenti.

Morricone diceva che essere originali diventa sempre più difficile. È d’accordo?

Nel nostro lavoro, più che altro, c’è un problema di versatilità. Gramsci diceva che la produzione era fondamentale per il risultato artistico di un’opera. Adesso la questione riguarda la distribuzione. Un compositore che fa cinema deve saper rimanere liquido tra i vari contenitori e mantenere il proprio colore: c’è qualcosa dentro di te che esce fuori nella scrittura e ti differenzia dagli altri.

L’originalità dopo il secondo novecento non è più una richiesta. Puoi lavorare di citazioni, la grande conquista della nostra generazione, che può dire di avere ascoltato tutto, è di non avere necessariamente un’esigenza di originalità. Attualmente ci sono casi di colonne sonore che si impongono sui film, ma lasciano il tempo che trovano. Quelli che sanno passare attraverso gli stili, pur mantenendo una propria originalità e non essendo generici, sono quelli che non vincono premi, che rimangono in sordina rispetto ai nomi più celebri a livello mediatico. Per un giornalista è molto più interessante intervistare Allevi o Einaudi che fanno una colonna sonora, come è più redditizio ospitarli per una premiazione o ad un festival. Ma il linguaggio cinematografico ha altri presupposti.