Terrestrial Verses: “Abbiamo tolto tutti gli orpelli del cinema per raccontare l’Iran kafkiano di oggi”

In concorso a Un Certain Regard, il film a episodi della coppia di registi Alireza Khatami e Ali Asgari arriva a Cannes senza il permesso delle autorità. "Il nostro è un atto politico", raccontano a THR Roma. "Le proteste? Siamo riusciti a scuotere l'opinione pubblica. Ci sono cose che non si possono più ignorare"

C’è Selena, una decina d’anni, che prova un balletto di TikTok davanti allo specchio del camerino mentre la mamma acquista la sua uniforme scolastica: tre strati di palandrana rigorosamente grigia o blu, lunga fino ai piedi. “Ma così si vedono solo gli occhi”, protesta lei. Appunto. C’è Ali, che ha un film personalissimo sulla storia di un ragazzo che uccide suo padre, ma ha bisogno del permesso del ministero per girarlo: nessun problema, basta che levi il padre dalla storia. “E chi uccide il ragazzo?”. Nessuno, via anche l’uccisione. E ancora: una ragazza fermata dalla polizia perché si è levata il velo in macchina (“Ma la macchina non è un luogo privato?”, “Ci sono i finestrini”), un padre che cerca di registrare all’anagrafe il figlio David (“David no, al massimo Davood”), un’anziana che si è persa il cagnolino. Anzi: gliel’ha sequestrato la polizia, perché i cani sono “impuri” (“Si prenda un canarino”).

È la quotidianità paradossale, kafkiana, di Terrestrial Verses degli iraniani Alireza Khatami e Ali Asgari, tra i film più sorprendenti di Un certain Regard di Cannes: un lungometraggio costruito attraverso undici brevi episodi di vita quotidiana a Teheran, che mette in fila con un tocco di humor nero istantanee di veri abusi operati dal regime degli ayatollah sui cittadini – dalla nascita all’ultimo giorno di vita. Girato in interni – camera fissa sul protagonista, la voce fuori campo dell’interlocutore – Terrestrial Verses è arrivato a Cannes senza  il permesso delle autorità: dietro alla camera ci sono Khatami, iraniano residente a Toronto, e Asgari. Che dopo aver studiato in Italia, a Roma, da tre anni è tornato in Iran. “Girare in interni ci ha consentito di fare a meno di chiedere il permesso alle autorità – raccontano – Abbiamo fatto tutto senza”.

Altrimenti? 

Khatami: Altrimenti sarebbe successo quel che mi è capitato la scorsa estate, quando sono tornato in Iran per girare un film che si sarebbe dovuto chiamare Things I Would Kill (cose che vorrei uccidere, ndr). Di fatto mi hanno ammazzato il film. L’80% dei dialoghi nell’episodio del regista, in Terrestrial Verses,  li ho ascoltati con le mie orecchie. Ovviamente ho esagerato un po’: non ho strappato per davvero le pagine del copione davanti all’impiegato, ma solo perché erano in pdf.

Asgari: Tempo chiesi al ministero il permesso di proiettare un mio film. Mi dissero di fare un sacco di modifiche al montaggio e accettai. Le ho fatte tutte. Quando sono tornato da loro, però, non gli andava bene lo stesso: dicevano che non ero stato abbastanza creativo nel censurarmi. Il pubblico non doveva accorgersi che mancavano delle scene: potevo fare meglio, secondo loro.

Quelle di Terrestrial Verses sono tutte storie vere?

Khatami: Sono storie di amici, parenti, persone care. Ci hanno raccontato tantissimi aneddoti: abbiamo scelto quelli più esemplificativi di ciò che sta accadendo nel paese, aggiungendo l’umorismo per far arrivare meglio il messaggio. Ma è tutto vero. Non pretendiamo di raccontare una società intera, ma un insieme di storie che ci capitano tutti i giorni. Cose che capitano, naturalmente, quando vivi oppresso da un sistema che ti controlla. Da lontano magari non si capisce chiaramente, ma quando prendi una lente di ingrandimento e osservi da vicino un fenomeno, ecco che l’assurdità del quotidiano emerge con una certa, evidente forza.

La camera fissa, gli episodi: perché questo formato?

Asgari: L’ispirazione è arrivata dalla poesia persiana. C’è una tecnica poetica specifica, il dibattito, in cui due persone si affrontano difendendo ciascuno un aspetto diverso di un’identica questione. I temi trattati sono sempre politici o sociali, la costante è l’umorismo. Abbiamo provato ad applicare quella tecnica poetica al cinema.

Khatami: Credo che sia indispensabile, da un punto di vista etico, trovare un nuovo linguaggio per raccontare il nostro paese, specialmente dopo quel che è successo a partire dal settembre 2022 (le proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, ndr). In un momento di crisi e di estrema transizione come questo, non si può far cinema col dolly e il carrello. Serve un nuovo linguaggio. Ci abbiamo pensato, e abbiamo deciso di sottrarre al cinema tutti i suoi orpelli. Via quello che non è strettamente necessario. Andiamo all’osso: una camera e un cavalletto. 

Le proteste successive alla morte di Amini hanno cambiato qualcosa?

Khatami: I movimenti hanno sempre alti e bassi. C’è un momento di esaltazione e ribellione, poi ci si ferma a riprendere il fiato, ci si ricompatta, si ripensano le strategie e si torna all’attacco. Ogni volta sempre meglio, sempre più numerosi. L’obiettivo più importante raggiunto dal movimento è l’essere riuscito a scuotere l’opinione pubblica. Ci sono cose che non si possono più ignorare. Eppure non credo che il sistema ammetterà delle riforme: bisognerà trovare un altro modo per risolvere la questione.

Il film si conclude con un’immagine apocalittica: un invito alla ribellione? 

Khatami: Abbiamo pensato a tantissimi finali, ma non ce ne convinceva nessuno. A un certo punto ci è venuto in mente un poema di uno dei più grandi poeti iraniani di tutti i tempi, Forugh Farrokhzad, morto negli anni ’70. Una delle sue poesie, Terrestrial Verses, comincia così: “Quando il sole diventerà freddo, la terra perderà la sua abbondanza. Il pianeta diverrà arido”. Ecco, è il nostro finale: se non facciamo qualcosa, se non pretendiamo il cambiamento, finiremo così.

I vostri colleghi Jafar Panahi, Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad hanno pagato col carcere il loro cinema. Ne vale la pena?

Khatami: Più dell’oggetto in sé, conta il processo. Solo il fatto che abbiano provato a fare i loro film, in questo contesto, conta moltissimo. Asgari ed io abbiamo fatto un film senza chiedere il permesso. Il nostro è un atto di protesta. 

Non temete le conseguenze?

Khatami: L’unica conseguenza che considero è che adesso il re è nudo. E una volta che l’hai mostrato a tutti così, nudo, non si torna più indietro. Per la nostra gente è fondamentale sapere che c’è chi resiste, chi si oppone. Io non ci sto. Io dico no. E dire no è un potere grandissimo, è ciò che ci permetterà di spezzare il sistema. Vale sempre la pena provarci.

Asgari, lei vive in Iran: ha mai pensato di tornare a Roma?

Ho studiato a Roma e ho ancora molti amici in città. Quando posso ci torno volentieri. Amo il cinema italiano, ho studiato in Italia perché ero affascinato dal neorealismo e ho viaggiato molto nel vostro paese. Ma da tre anni sono tornato in Iran. Perché? La mia famiglia è a Teheran. Mia madre è a Teheran. Da noi si dice: “Il tuo paese è quello in cui vive tua madre”.  Sono in Iran perché l’Iran è la mia casa, è là che devo stare.