Vergaio tremò tutta quando il suo giullare folle gridò “my little village in Italy” sul palco dorato degli Oscar. Dal megaschermo montato nella Casa del Popolo di questa frazione toscana – poco più di un incrocio a due passi dall’imbocco autostradale di Prato Ovest – lampeggiavano le immagini di Hollywood in festa, Steven Spielberg che si spellava le mani, Goldie Hawn con gli occhi umidi, Meryl Streep radiosa e Sophia Loren che, non si sa se più incredula o più commossa, annunciava il vincitore con l’esclamazione “Roberto!” entrata nella storia del cinema.
C’era chi piangeva a dirotto, alla Casa del Popolo trasformata in una bizzarra succursale del Dorothy Chandler Pavillon di Los Angeles, con tanto di tappeto rosso e due sagome di Oscar all’ingresso, c’era chi gridava “Robertino… Robertino, un’ ci posso credere” (un signore anziano si coprì il volto singhiozzando vistosamente), sul piazzale fuori la banda di paese suonò all’impazzata, fiumi di spumante finirono schizzate addosso ai cameramen delle televisioni, gli amici d’infanzia di Benigni, noti bestemmiatori e mangiapreti, si abbracciavano come folgorati dall’apparizione della Madonna.
Venticinque anni fa, in una lunga e incredibile notte toscana a cavallo tra il 21 e il 22 marzo 1999, il paesino di Vergaio fu l’ombelico del mondo. Tre Oscar vinti su sette candidature: La vita è bella aveva creato una magia forse irripetibile per il cinema italiano, quella di un uomo che sulle ali di un inaudito racconto sull’Olocausto aveva conquistato la vetta del mondo, un toscano di campagna che dalla Mecca del cinema ringraziò il babbo Luigi e la mamma Isolina “per il regalo più grande: la povertà”. Chi scrive, quella notte era lì, inviato dall’Unità a raccontare il miracolo: che era soprattutto il miracolo di un piccolo paese di provincia, di quelle facce tagliate come la pietra da secoli di lavoro contadino, di quegli occhi di un pezzo di Toscana lambito nei secoli dall’Alighieri e da Leonardo ma che sembrava dimenticata da Dio finche non arrivarono gli Oscar.
Lo ammettiamo: qui trovate molte delle stesse parole usate su quel servizio dell’Unità, perché le immagini di quella notte sono rimaste nitide, indimenticabili come avessimo vissuto dentro un film di Fellini. Quando il mondo intero sentì il nostro giullare gridare “Vergaio”, il boato scosse la Casa del Popolo sin dalle fondamenta. Erano almeno in duemila nella piazzetta antistante – la gente di qui, i vicini di casa, i tantissimi venuti da fuori – mentre un centinaio tra ospiti, parenti stretti e amici di gioventù di Robertino aveva trovato posto all’interno del cosiddetto “Palacotechino” dov’era montato il secondo megaschermo. Quelli fuori avevano aspettato per ore e ore nella notte, vecchine imbacuccate, ragazzi dall’aria truce, facce toscane irregolari e aspre, sfidavano vento, freddo e pioggia, mentre la Banda di Pesaro, il “Club dei Brutti”, intonava, chissà perché, O’ sole mio.
Erano le 4.02 quando arrivò la prima statuetta, una potente scossa elettrica attraversò la piazza per riverberarsi sul tendone, esplodono le bottiglie di spumante, le sorelle di Benigni – Bruna e Albertina la fioraia – coi volti rigati dalle lacrime, grida da stadio “Ro-ber-to, Ro-ber-to!”. La nottata di Vergaio diventò storia alle 4.14 quando viene annunciato il secondo Oscar, forse inatteso, l’emozione si tramutò in orgasmo collettivo. Alle 5.04 piombò come una saetta il terzo Oscar, le telecamere (alcune delle quali americane) presero a correre come cavallette ad accaparrarsi pure le interviste più improbabili, tra cui quella al rappresentante dell’unico Benigni fan club scozzese, vestito col tradizionale kilt.
Certo che c’era anche tanta gente del cinema e di spettacolo quella notte, compreso di buffet pieno di calda ribollita. Pamela Villoresi che diceva “questa vittoria è il riscatto delle anime pure”, il Paolo Virzì di Ovosodo e di Baci e abbracci accompagnato dalla sua gang di attori, Gabriele Salvatores che sussurrava cose incomprensibili, il compianto Carlo Monni che dava a tutti brutali pacche sulle spalle. Ma anche il poeta in ottava rima Altamante Logli che levava inni ispirati all’eroe e soprattutto gli amici di Benigni che non riuscivano a sottrarsi alla tentazione di narrare sapidi aneddoti: “Roberto ‘un pagava mai i debiti, sai quante volte se ne scappava dalla finestra?”.
Giuseppe Bertolucci, che aveva diretto Benigni in Berlinguer ti voglio bene, ci raccontò che “già allora Roberto tendeva ad essere il film”. E mentre tutt’intorno era una baraonda totale, aggiunse: “La nostra fu una simbiosi riuscita, erano delle grandi sedute psicanalitiche in cui lui parlava come un fiume: quel binomio genitalità-ideologia che raccontavamo era il portato di un mondo contadino che iniziava a fondersi con l’industria”.
Appunto: è quel mondo contadino che trovava il suo riscatto, per la prima volta nella storia, in questa incredibile nottata. Fu la parabola del Piccolo diavolo dall’epopea di Televacca e dell’Inno del corpo sciolto al glamour globalizzato di Hollywood, fu quel mondo contadino impresso nel sorriso di babbo Luigi e di mamma Isolina ad affacciarsi finalmente al mondo, senza perdere un grammo della sua anima. Ad un certo punto li avvicinammo, i genitori dell’eroe il cui faccione stava colonizzando il megaschermo hollywoodiano. “Signor Benigni, ne ha fatta di strada il suo Robertino, da Televacca agli Oscar…”. Babbo Luigi: “Eh gi… però sono le parolacce l’unica cosa che gli rimproveravo. Siamo gente contadina noi, quelle cose non le diciamo, parole come cazzo, culo, cicala… no, non le diciamo. Ma ora è un bravo ragazzo”.
Sono le sei passate quando Vergaio va a letto, è un’alba bagnata, grigia ed emozionata di una notte come nessuna mai. Aprono i primi bar, si torna al lavoro, lontano si sentono i Tir sull’autostrada. La “little village” Vergaio oggi era Hollywood, oggi era il mondo.
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