È una sfida in gran parte europea quella al miglior film internazionale degli Oscar 2024, nella notte tra il 10 e l’11 marzo. Italia, Germania, Gran Bretagna e Spagna contro il grande regista tedesco, Wim Wenders, in corsa per il Giappone.
Una rosa di film da cui, come si è discusso ampiamente nei mesi scorsi, manca il favorito ideale, Anatomia di una caduta, a causa di una scelta miope della Francia, ma in cui già emerge con forza il lavoro di Jonathan Glazer con La zona di interesse, che si avvicina alla notte del 10 marzo da quasi certo vincitore.
C’è chi prova a non farci caso, avanzando senza sosta nella campagna Oscar, come Matteo Garrone con i suoi protagonisti, Seydou Sarr e Moustapha Fall. C’è invece chi come, Wim Wenders con Perfect Days, sembra accontentarsi dell’acclamazione di critica e pubblico.
Resta in disparte La società della neve di J.A. Bayona, con una campagna promozionale decisamente inferiore all’ultimo vincitore Netflix del titolo (Niente di nuovo sul fronte occidentale, 2023). Mentre lker Çatak gioca la carta della mina vagante con La sala professori. Un film dallo spiccato messaggio sociale che nessuno ha visto arrivare e che, senza preavviso, ha spodestato il finlandese Aki Kaurismäki nelle ultime premiazioni della stagione.
La zona di interesse di Jonathan Glazer (Gran Bretagna)
Nessun film della cinquina internazionale – e nessun film dell’anno – ha la stessa potenza visiva, emotiva e narrativa di La zona di interesse, candidato appunto anche a miglior film. Jonathan Glazer schiaccia lo spettatore in una morsa sempre più stretta, fatta di suoni opprimenti da cui è impossibile fuggire, soprattutto all’interno di una sala cinematografica. In contrasto, apre gli spazi e si allontana il più possibile dai corpi e dai primi piani, per non permettere mai l’identificazione con il male nazista. Che non è folle, non è mostruoso, è solo banalmente umano.
L’emozione si strozza in gola, come nei conati di Rudolph Höss, il comandante di Auschwitz protagonista del film, e quel senso di oppressione che Glazer crea resta attaccato addosso a lungo. Prova del fatto che il grande cinema riesce a dire tutto, anche quando non mostra niente.
Io capitano di Matteo Garrone (Italia)
Che Io capitano sia un’opera di stringente attualità, di necessaria comprensione, lo si capisce leggendo le cronache italiane anche a pochi giorni dalla cerimonia degli Oscar, mentre viene ritrovato il corpo senza vita di un diciassettenne, schiacciato su un barcone partito dalla Libia. La storia di Seydou e Moussa in confronto è una favola a lieto fine, anche se una fine realmente non ce l’ha.
È un viaggio violento, pericoloso, coraggioso e disperato quello che Matteo Garrone tuttavia rifiuta di ritrarre fino in fondo con intento documentaristico, perché altrimenti diventerebbe insopportabile, alla vista e al cuore. Lascia così che si insinui il suo onnipresente realismo magico, intrecciato alla visione animista che – stilisticamente – potrebbe anche ricordare il sovrannaturale di Mati Diop in Atlantique.
Eppure, nonostante il sospiro di sollievo che si tira alla fine, resta un film che deve far male. Che vuole far male, soprattutto a chi di fronte alla cronaca mostra solo indifferenza.
Perfect Days di Wim Wenders (Giappone)
“Adesso è adesso, un’altra volta è un’altra volta”. Sembra una frase criptica e ridondante quella che Wim Wenders fa pronunciare al suo protagonista Kōji Yakusho in Perfect Days, ma ne contiene tutto il senso, tutta la celebrazione del momento presente. Con il rifiuto, forse, tanto del passato quanto del futuro. Il giorno perfetto, sembra dire Wenders, è quello in cui ci si ricorda di guardare la luce fra gli alberi accorgendosi della sua bellezza.
È quello in cui una bella canzone risuona nel tragitto fra casa e lavoro e ogni cosa sembra al suo posto, ordinata su una mensola. L’equilibrio sempre uguale della perfezione, tuttavia, è illusorio ed esiste soltanto nella solitudine. Basta un incontro, una presenza che torna da una vita dimenticata, a riportare in superficie emozioni discordanti e luoghi della mente in cui è facile perdersi. Forse perché l’essere umano non è fatto per i giorni perfetti, o forse perché ogni scelta di beatitudine costringe a rinunce di cui non si è nemmeno più del tutto consapevoli, sembra dire Wenders.
La società della neve di J.A. Bayona (Spagna)
Ossa spezzate, arti in cancrena, la necessità sempre meno remota di doversi cibare dei corpi dei propri amici, dei propri compagni di squadra, per non morire. Ma a quale costo. Il racconto del vero disastro aereo del volo Air Force 571, avvenuto sulle nevi delle Ande nel 1972 e che ha coinvolto 45 persone, tra atleti e tecnici di una squadra di rugby uruguaiana, è una sfida etica e stilistica per J.A. Bayona.
Il regista si “riappropria” di un racconto che negli anni Novanta era stato privato della sua identità sudamericana (il film Alive – Sopravvissuti di Frank Marshall) tuttavia indugia sulla componente estetica – in effetti sorprendente soprattutto per un film Netflix nato per i “piccoli schermi” – più che su quella psicologica. Ogni ragionamento e ogni giudizio, tanto del regista quanto del pubblico, appare infatti superfluo di fronte alla regressione primordiale all’unico grande istinto umano, la sopravvivenza. Si spera che i votanti dell’Academy non abbiano lasciato indietro questo titolo, che dalla chiusura di Venezia a oggi sembra aver perso la sua presa iniziale su pubblico e critica.
La sala professori di lker Çatak (Germania)
Da L’attimo fuggente a Mona Lisa Smile, a Hollywood certo non mancano storie di insegnanti che rompono i muri di conformismo dei propri studenti e del sistema scolastico stesso, per educare alla libertà. È la confortante storia “da film ispirazionale”, ma la realtà dei fatti è quella raccontata da lker Çatak: la classe come microcosmo che riproduce la società. Allegoria di tutte le sue costrizioni, i suoi pregiudizi e le sue regole da rispettare.
Attraverso lo sguardo sempre più disilluso di una giovane insegnante, La sala professori è un intelligente racconto su due livelli: ciò che accade realmente dentro la scuola, il “giallo” del ladro da catturare, e ciò che invece è il lato oscuro di tutti i sistemi che si dicono democratici e che, in realtà, impongono una visione e un codice di comportamento a cui ci si adegua o ci si prepara ad affrontarne le conseguenze.
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